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Kogasso, da Kinshasa a Voghera per arrivare in cima: “L’Italia è casa mia, sbaglia chi dice che è un paese razzista”

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Kinshasa e Voghera sono divise da 8.522 km, da usi, costumi e tradizioni. Ma punti di contatto, come in tutte le cose, ce ne sono. Ad esempio la boxe. A Kinshasa, quando si chiamava Zaire e non Repubblica Democratica del Congo, si disputò uno degli incontri più famosi della storia, ‘The Rumble in the Jungle’ tra Muhammad Ali e George Foreman. A Voghera ha vissuto uno dei più fulgidi talenti della boxe italiana degli ultimi trenta anni, il grande Giovanni Parisi. Il trait d’union è Jonathan Kogasso: 28 anni, nato a Kinshasa, vive a Voghera. Professione: pugile, categoria massimi leggeri. Aspirazioni: arrivare in cima al mondo. Prossimo gradino, sabato sera all’’Allianz Cloud di Milano: titolo del Mediterraneo Wbc contro Goran Babic, co-main event dell’attesa sfida tutta italiana tra Morello e Chiancone. La riunione dalle 19,30 in diretta su DAZN.

Nella RD Congo fino a 8 anni

“Sono nato a Kinshasa e ci sono rimasto fino all’età di 8 anni. Poi mi sono trasferito in Italia da una zia – racconta il pugile -. Nell’adolescenza ho giocato al calcio in squadre locali, centravanti vecchia maniera, di sfondamento. Ma sinceramente ben presto ho capito che in quello sport non avrei sfondato”. Poi l’approdo alla boxe, casuale, senza vocazione: “Non ci avevo mai pensato e non avevo mai seguito la la boxe, a parte conoscere Ali e Tyson. E’ capitato che un mio amico di Voghera mi ha visto con la testa tra le nuvole e qualche compagnia sbagliata. In pratica perdevo tempo per strada a fare nulla e dopo qualche perplessità ho sono entrato nella palestra dedicata a Giovanni Parisi. Lì sono cresciuto con la vecchia scuola del maestro Livio Lucarno, basata su disciplina e rispetto”.

L’infanzia dignitosa ma non facile

Jonathan è papa di un bambino di un anno e mezzo, fortunato ad essere nato in un posto e in un’epoca dove la vita è più facile. “Anche se la mia infanzia posso definirla difficile solo se la paragoniamo a quella dei bambini italiani. Papà militare e mamma commerciante si davano da fare e mi hanno assicurato una vita dignitosa. Anche se è chiaro, le difficoltà non mancavano. E’ capitato di passare la giornata a digiuno aspettando di mangiare la sera, e se avevi solo un paio di scarpe dovevi stare attento a non rovinarle sennò erano guai”.

Kogasso parla cinque lingue: “Nel futuro anche l’università”

Insomma, un posto in cui crescere in fretta: “Qui un bimbo di 6 anni va a scuola tenuto per mano, noi a Kinshasa ci andavamo da soli con la possibilità di dover gestire cause di forza maggiore. Ma tutto questo mi è servito molto”. Jonathan a Voghera si è integrato senza problemi: “Parlo cinque lingue. Inglese, francese, ovviamente italiano, spagnolo e lingala (la lingua della RD Congo) . Lavoro all’Università di Pavia, ma non sono iscritto come studente. E’ un progetto che ho e che prima o poi metterò in pratica. Vorrei laurearmi in lingue”.

L’Italia non è un paese razzista

La cittadinanza italiana, che potrebbe arrivare da un momento all’altro (“Pratiche avviate da tempo”), sarebbe il completamento di percorso: “Mi sono sempre sentito a casa, mi hanno aiutato tutti. Il razzismo? A parte qualche stupidotto, mai avuto problemi seri. Penso che l’Italia non sia un paese razzista, chi afferma il contrario ha girato poco. Io ho parenti qua e là per il mondo, posso fare confronti e affermarlo con cognizione di causa”. Si definisce pugile tecnico (“a volte anche troppo…, ma con me stesso sono molto autocritico”) e veloce, l’alias di Mamba in tal senso parla chiaro.

Il rimpianto dell’Olimpiade

E’ un ragazzo tranquillo con un grande rimpianto: “Non essere andato all’Olimpiade di Tokyo. Ho speso 4 anni nell’attesa del torneo di qualificazione in Senegal. Giunto il momento avevo fatto anche il biglietto, poi dai vertici federali della RD Congo mi è stato detto che era preferibile che gareggiassero pugili residenti in patria. Risultato, quello che hanno scelto ingiustamente al mio posto è stato subito eliminato. Poi per via del Covid non ci sono stati più tornei di qualificazione e sono rimasto fuori. Lo avessi saputo avrei guadagnato tre anni di professionismo”. Insomma, recuperare il tempo perduto, a partire dal match con Babic: “Voglio arrivare a toccare il cielo come dicono in Africa, essere il numero uno del mondo”.

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